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Perfezionismo o maestria?

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Non ho fallito, ho semplicemente
trovato i 10.000 modi in cui non funzionava”
T.Edison

Aidos è la dea greca della vergogna e della modestia. Se ne va in giro insieme a Nemesi, dea della vendetta, ed è in grado di incutere in chi la percepisce quella sensazione di riverenza e di pudore che dovrebbe trattenere gli esseri umani dal compiere il male.

Credo dovrebbe stare, inoltre, nello studio di ogni psicoterapeuta come un antidoto, un farmaco da somministrare a chi tenta di essere perfetto: gli ossessivi in particolare che intravedono la catastrofe in ogni imperfezione del comportamento, in ogni sbaglio che non deve esser scoperto e che va subito rimediato per evitare la vergogna appunto e la colpa e la vendetta di… chiunque scopra l’errore e, soprattutto, di quel giudice interiore che sempre misura la distanza fra l’io e l’ideale e, negli ossessivi, determina la fissazione che trasforma il pensiero in ruminazione e in coazione a ripetere/ritornare sui propri passi/ “rimediare”.

Questi comportamenti sono evidenti in chi soffre di DOC ma nessuno sfugge completamente allo sguardo di quella parte di noi che, imponendo uno standard irraggiungibile, ci tiene sotto scacco e ci paralizza con richieste soverchianti e con desideri inesaudibili.

Aidos aiuterebbe in un modo che potremmo definire omeopatico.
Infatti, anche se sembra esserci un nesso fra ossessività e vergogna, se riuscissimo ad essere preventivamente umili saremmo meno ossessionati dall’idea di fare sempre “un lavoro perfetto”, se imparassimo a lasciarci alle spalle la perfezione e a considerare di più il viaggio e di meno la meta, se accettassimo, insomma, che mentre lavoriamo all’opera lavoriamo anche su noi stessi, a quel punto saremmo meno paralizzati dalla paura del fallimento e più attenti a cosa cambia in noi mentre siamo intenti, cosa succede mentre procediamo.

Ci occuperemmo insomma più della maestria e meno del perfezionismo. Saremmo più interessati all’esplorazione e alla scoperta e meno intrappolati dalla tirannia del risultato.

Dice Sarah Lewis: “Avere uno scopo è uno dei motivi che ci fa prosperare: l’avere ancora qualcosa da fare è una spinta che aiuta a crescere. Le cose lasciate deliberatamente incomplete sono state per lungo tempo parte dei miti sulla creazione. Nella cultura Navajo alcuni artigiani, uomini e donne, hanno cercato intenzionalmente delle imperfezioni inserendo nei loro tessuti e nelle ceramiche un difetto voluto che chiamavano “una linea dello spirito” in modo che ci fosse un’ulteriore spinta ad andare avanti e una ragione per continuare il lavoro. Quasi un quarto dei tappeti Navajo del ventesimo secolo contengono questi fili dai colori contrastanti che sembrano saltar fuori dallo schema generale per andare oltre ai confini che lo contengono; anche le ceste e le ceramiche Navajo contengono linee chiamate “linea del cuore” o “apertura dello spirito”. Lo schema lasciato incompleto intende lasciare allo spirito del tessitore una via d’uscita in modo che non venga intrappolato….”.

La trappola consiste proprio nell’ideazione ossessiva: la pretesa di avere tutto sotto controllo, anche la mente di chi guarda, di chi compera, di chi calpesterà l’opera che abbiamo compiuto di cui il tappeto di cui sopra è un’ottima metafora.

Diventare bravi è contemplare l’errore come parte dell’ecologia in cui siamo immersi: qualcosa con cui rapportarsi, da studiare e da usare, a volte, come strumento per… diventare più bravi, appunto.

Sentite Hillman in Politica della bellezza: “Fino a poco tempo fa la vergogna era stata degradata a colpa, un’emozione localizzata nell’io o nel super-io; invece la vergogna ci invade, ci fa arrossire, è un vero e proprio afflusso divino. La vergogna mi sembra l’emozione dell’ecologia, così come “aidos” è la parola caratteristica propria di Artemide, l’attraente e l’inafferrabile Signora dei boschi, delle sorgenti, delle colline e delle radure. Dice un canto Navaho:
Mi vergogno di fronte alla terra;
mi vergogno di fronte ai cieli;
mi vergogno di fronte all’alba;
mi vergogno di fronte al crepuscolo;
mi vergogno di fronte al cielo azzurro;
mi vergogno di fronte alle tenebre;
mi vergogno di fronte al sole.
Una di queste cose mi sta sempre guardando.
Non sono mai al di fuori del loro sguardo.”

Come è diverso questo sguardo da quello che ci inchioda alla croce del perfezionismo. Quello ci chiude in una mente stretta e conservatrice che spolvera, lustra, imbelletta. Questo ci espone e ci allena al cambiamento e alla ricerca.

Artemide


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